When I was 13-years-old, besides gossiping about the cute boys in town and worrying about blossoming in all the right places, I was also dealing with the responsibility of taking care of my 83-year-old grandmother after she had suffered a stroke. It was not a difficult task. It was much like keeping an eye on a toddler. My job was mainly making sure she would not fall and hurt herself. However, I redeemed it as an annoying burden. At times, I would hide at a friend’s house or in an isolated alley of the town, so that I would not be found. But then the compassion nestled in my heart always brought me back to her. As a young teenager, spending time with my grandmother was not my perception of having fun, but it is precisely thanks to those days that the idea of writing this story was born today.
My grandmother was the same height as the young girl I was. She had her hair pulled back and tied in a little bun. Her skin had the texture of a crumpled plum. Her face and hands were the parts of the body visible to the eye, just like a turtle that hides inside its shell. Due to a lack of dental care, she had lost most of her teeth, so that her mouth was filled with exposed gums all around.
During the cold days, she covered her head with a gray wool babushka graciously tied under her chin. She wore a dark-colored dress that draped down to her ankles. When she walked, it dangled gently from side to side. Bundled up in that fashion, she assumed very much the appearance of a Russian Matryoshka doll.
She loved to eat boiled escarole which she habitually simmered in a small pot by the fireplace. She cooked it extensively as a way to pass the time, prodding the embers every once in a while, in the attempt to keep the flames alive.
My grandmother was loving and kind, but also a little impatient and irascible. Sometimes, she would lose her temper over superficial matters. She always immediately regretted it and, with a humble voice, soon after apologized. She bartered 100 Italian liras or a bar of milk chocolate in exchange for my forgiveness.
When the weather was nice outside, she stood on the balcony looking down on the vegetable garden she could no longer cultivate. Her eyes were filled with the innocent nostalgia of a young toddler who had had her favorite toy taken away.
She wandered around the house, reciting a strange monologue consisting of the single note “ah” as a way of lamenting the hurdles of a difficult life. She sighed it in a sequence of three or four at a time, with a tone of voice severe and acute. Her sounds were seemingly about nothing in particular. Perhaps, she was contemplating the birth of her 12 children, the death of seven of them or the enduring physical pain she felt inside.
When her aging body ached more than usual, she would let two or three curse expressions slip out of her mouth, forgetting, for a second, the presence of her young spectator. I don’t think she cursed out of malice, but rather as a way to unleash her pain.
Although my grandmother did not attend mass much, she practiced her Catholic faith more than professing it. She received a small pension of which she donated a generous portion to various Catholic charities. I still remember those days, when sitting side-by-side, I read the name on the envelopes as she dictated the amount to be given.
When I was a young girl, babysitting my grandmother was an annoyance for my daydreaming mind. Today, it is like leafing through the pages of an old photo album featuring the images of the way she looked on the outside and also on the inside. Now that she is no longer here, I am glad that, when she was still alive, I got to be her personal photographer.
Babysitting la mia nonna italiana
Quando ero una tredicenne, a parte chiacchierare dei bei ragazzini del paesello e preoccuparmi del mio aspetto fisico, avevo anche il compito di badare alla mia nonna ottantatreenne che qualche tempo prima aveva sofferto una paralisi. Non era un lavoro difficile. Era più o meno come tenere d’occhio un bambino.
Dovevo semplicemente stare attenta che non cadesse e non si facesse male. Tuttavia, lo ritenevo un lavoro molto seccante. A volte per non farmi trovare, mi nascondevo in casa di un’amica o in un vicolo isolato del paesino, ma poi alla fine la compassione custodita nel cuore mi riconduceva sempre a lei. Da adolescente, l’idea di prendermi cura di mia nonna non mi sembrava divertente, oggi invece è proprio lo spunto che dà vita a questo breve racconto.
Nonna era una donna alta quanto me. Portava i capelli raccolti dietro la nuca. La sua pelle aveva l’ aspetto di una prugna appassita. Il viso e le mani erano le sole parti visibili all’occhio, come una tartaruga che protegge il corpo dentro il proprio guscio. A causa della mancanza di cure dentistiche, aveva perso quasi tutti i denti e in bocca aveva solo gengive nude.
Durante le giornate di freddo, si copriva la testa con un fazzoletto di lana grigio graziosamente annodato sotto al mento. Portava un vestito lungo e grigio che le arrivava alle caviglie e che ondeggiava da un lato all’altro quando lei camminava. Avvolta in quel modo, sembrava davvero un’adorabile matriosca russa.
Le piaceva molto mangiare la scarola lessata che abitualmente bolliva in un piccolo pentolino vicino al suo camino. La cucinava per molto tempo, per far passare le sue giornate, muovendo la brace di tanto in tanto per tenere vive la fiamma.
Nonna era molto affettuosa e gentile, ma anche un po’ impaziente ed irascibile. A volte perdeva la pazienza per un niente, poi si pentiva sempre e con la sua vocina, chiedeva subito scusa umilmente. In cambio del mio perdono mi regalava 100 lire o una tavoletta di cioccolato al latte.
Quando fuori faceva bello, stava in piedi in balcone guardando il suo orto che non poteva più coltivare. I suoi occhi erano velati della stessa nostalgia innocente di una bambina a cui avevano sottratto il giocattolo preferito.
Girava per casa, recitavando uno strano monologo e pronunciando la singola nota “ ah” per lamentarsi delle difficoltà della vita. Emetteva una serie di esclamazioni, tre o quattro per volta con un tono di voce severo e acuto. Non sembrava che i suoi sospiri avessero una ragione precisa: forse pensava ai dodici figli a cui aveva dato la vita, alla morte di sette di loro, oppure al costante dolore che provava dentro.
Quando sentiva più dolore del solito, si lasciava sfuggire due o tre maledizioni, dimenticandosi per un attimo della mia presenza. Non penso che bestemmiasse per cattiveria, ma piuttosto per scaricare la sua pena.
Nonna non andava molto in chiesa. Ciò nonostante, più che predicarla, praticava la sua fede. Percepiva una piccola pensione di cui donava gran parte ai poveri. Ricordo ancora quei giorni quando sedevamo l’una accanto all’altra: io le leggevo il nome del ricevente e lei mi dettava l’importo da donare.
Quando ero poco più di una bambina, prendermi cura della nonna era una noia per la mia mente sognante. Oggi invece, è come sfogliare le pagine di un vecchio album fotografico che illustra le immagini di come era fisicamente, ma anche intimamente. Ora che non è più con noi, sono contenta di averle scattato quelle foto quando era ancora in vita.